lunedì 23 giugno 2014

Il sospiro del ricordo









Due strade messe in croce dalle quali si godeva di un panorama sterminato sul nostro futuro. Non un semplice crocicchio messo lì a farci credere che si potesse sognare di diventare qualcuno, ma piuttosto il riassunto di un’ambientazione futurista portatrice di essenze immacolate e speranze senza precedenti. Potevi appostartici verso le due o le tre del mattino, protetto dalla caparbia copertura dei tetti, e sentire i muri di quegli edifici respirare; letteralmente!  Un ronzio lento, continuo, rassicurante.
    Ti pareva di cogliere nell’aria i residui dell’ultima discussione tra la Franca e suo marito, che parlava sempre del figlio come di un brutto temporale abbattutosi all’improvviso su un’interminabile parata di giorni pieni di sole. Oppure, due piani più in alto, il respiro affannoso di Maria, che ormai da tempo aveva imparato a piangere senza fare troppo rumore per via di quel fidanzatino così poco concreto che tanto la faceva dannare. I sogni di Alessandro, che nessuno di noi capiva per davvero cosa volesse fare da grande, ma tant’era la determinazione nel raccontarceli che non c’era da dubitare sul loro coronamento. E poi c’era la Giulia, Alessandro, Andrea, Luca, la Giada, Marco; un microcosmo brulicante di vita, vigoroso e insaziabile, così com’erano all’epoca i cuori di chi ne faceva parte: spavaldi e increduli, di fronte a quel paradiso accaduto un po’ troppo presto perché i nostri animi ancora in costruzione potessero assaporarlo fino in fondo.
    Quando mi capita di passarci adesso, sento sulle spalle il peso ammonitorio di finestre che non mi riconoscono, evito di sollevare lo sguardo per non vederci incorniciato dentro qualcuno che non dovrebbe stare lì, che non ne ha il diritto. Poco più avanti, andando verso il viale, dove la vita per noi terminava, si sbriciolava, e infine confluiva in miliardi di rivoletti insignificanti che non erano più nostri, c’è ancora il giardinetto sulla destra. La natura si è presa la panchina sulla quale sedevamo ogni sera, l’erbaccia ha azzannato i nostri calci al pallone, e i graffiti sui muri che lo circondano parlano di storie che non sono più le nostre.
    Ma io so che i muri degli edifici che formano il crocicchio conservano intatto il ricordo, custodiscono gelosamente la memoria di chi eravamo, hanno assorbito le nostre risate, le nostre urla di felicità, lo scotto delle prime delusioni d’amore; l’amarezza consapevole di chi per primo se ne andò, vergando la parola fine su una storia che pensavamo non dovesse finire mai. Persiste in loro immutato il ricordo, di un’opera grandiosa, andata in scena per pochi adolescenti.