giovedì 28 agosto 2014

Che pena morire così, senza esserci conosciuti






Tornando a casa ieri mi sono imbattuto in una di quelle cataste che ogni tanto s’incontrano sui marciapiedi. Solitamente si tratta di vecchi mobili da buttare, frigoriferi, televisori giunti a fine carriera. Le persone chiamano gli addetti alla raccolta e loro gli affibbiano un numero d’intervento che queste devono esporre in cima alla pila di cianfrusaglie. Quasi sempre non passa neanche un giorno prima che, come da accordi, chi di dovere passi a togliere la roba dal marciapiede, ma questa volta non sono stati così solerti, e io, che subito avevo notato una cosa che stuzzicava il mio spregiudicato appetito nostalgico, oggi mi sono fatto coraggio e l’ho presa. Tecnicamente non credo possa definirsi “furto”, insomma… la roba era da buttare, ma ciò non toglie che ho provato un fastidioso imbarazzo quando ho afferrato il telefono semi-seppellito sotto una vecchia sedia imbottita e un abat-jour in ottone, che per qualche misterioso motivo, chi voleva disfarsene, ha avuto cura di avvolgere in alcuni fogli di giornale.
    Il telefono adesso è qui, sulla scrivania accanto al mio computer. Pesa circa un chilo ed è completamente grigio (eccezion fatta per la rotella di plastica trasparente nella quale si doveva infilare il dito per comporre i numeri) di quel grigio burocratico, Fantozziano, che rievoca ricordi belli o brutti a seconda delle esperienze personali. Sotto, sulla piastra di ferro che forma la base c’è impresso a fuoco “Proprietà Sip” accanto è recato il numero di matricola che è il 9263 mentre poco sotto, sempre marcato a fuoco, si parla di un fantomatico “collaudo sintetico N.23”.
    Il numero che si doveva comporre per farlo squillare, e quindi raggiungere gli inquilini dell’appartamento dove il telefono svolgeva le sue funzioni è il 293280 (all’epoca di appartenenza dell’apparecchio non si doveva comporre il prefisso per chiamare un numero della stessa città), i numeri sono scritti a penna con una certa eleganza su un cartoncino bianco protetto da una placchetta di plastica trasparente.
     L’ho pulito con alcool e cotone, perché così mi hanno insegnato a fare da piccolo per disinfettare le cose, come quando tornavo a casa con una sbucciatura, oppure un taglio, o comunque qualcosa che richiedesse l’intervento della mamma e della malefica soluzione puzzolente, fredda, dal colore inequivocabile, e dal bruciore che ogni volta pareva infrangere e oltrepassare una nuova barriera nella scala dei valori imputabili al dolore. E più l’alcool bruciava al contatto con la parte di corpo malconcia, più la mamma annuiva soddisfatta, e col piglio distante del dottore consumato alla fine diceva «così impari la prossima volta»  ma io so che sotto sotto soffriva almeno quanto me.
    Mia moglie poco fa è entrata nella stanza, ha guardato il telefono sulla scrivania poi ha guardato me «E quello? » Ha chiesto cercando di mostrarsi incuriosita e tranquilla al tempo stesso, perché con gli uomini di mezz’età non si sa mai dove vanno a parare con le stramberie «E’ un telefono» ho risposto «Sì lo vedo che è un telefono» ha detto avvicinandosi. Ha sollevato la cornetta portandosela all’orecchio ed è rimasta un po’ ad ascoltare il nulla cosmico pensando fosse la cosa giusta da fare in quel momento «Era nella catasta dei Meggiorini, giù sul marciapiede» ho detto, perché qualche spiegazione dovevo pur darla. Poi lei ha rimesso a posto la pesante cornetta che ha fatto produrre al telefono un piccolo “din” e dopo aver finto di mettere a posto qualcosa alle mie spalle, in silenzio, ha lasciato la stanza.
    Così l’ho fatto anch’io. Mi sono portato la cornetta all’orecchio e mi sono messo in ascolto. Chissà quante gioie, lacrime, dolori, saranno passati attraverso questo microfono ho pensato, cercando di entrare in sintonia con l’apparecchio, quanti invece ne saranno arrivati dall’altoparlante. Ma quel giochetto non mi ha regalato nessuna emozione, il telefono non ha parlato, o forse, da devoto servitore della famiglia Meggiorini non ha voluto svelare a uno sconosciuto i suoi segreti.
     Così mi sono messo a giocherellare con la rotellina che serviva a comporre i numeri.  Ed ecco che, come per magia, quel gesto ha fatto rispuntare uno a uno vecchi numeri che credevo di aver dimenticato una volte per tutte. Come quello degli zii del paese vicino, i quali un destino crudele aveva marchiato con un numero che iniziava con l’8, che lasciava immediatamente intendere la loro natura di campagnoli. Ho fatto andare la rotella che ha prodotto quel rumore strano e inconfondibile, simile a un suono: meccanico sì, ma anche armonioso, concreto e affettuoso, perfetto e crudele come un raschino passato direttamente sul mio cuore sempre affamato di ricordi. Ho composto il loro numero fino alla sesta cifra. Il bello di quei telefoni era che si poteva esitare, si poteva sfruttare la loro mancanza di intelligenza ed essere umani, fermarsi senza il coraggio di comporre l’ultimo numero;  lasciar perdere in poche parole. «Sono tutti morti» ho pensato «che senso ha proseguire? »  Poi mi è balzato in testa il primo numero che ho imparato a memoria, quello di casa della nonna: 55193.
    All’epoca si viveva tutti insieme, non so il motivo, suppongo che i miei non avessero soldi a sufficienza per potersi comprare una casa loro, ma a sei anni chi se le pone certe domande? A quell’età si gode di gioie minuscole a getto continuo, e pascolando protetti nel recinto dell’infanzia non si ha tempo per fare altro che aspettare col cuore in allerta un’altra piccola gemma di felicità da aggiungere a quelle che formano e colorano quel fantastico mondo fatto di sogno. Fatto è che ho vissuto in quella casa fino al termine della prima elementare, di questo almeno sono sicuro.  Così ho iniziato a comporre il numero che già migliaia di altre volte avevo composto, ma che credevo di aver dimenticato da quando sono entrati in commercio i telefoni che ricordano tutto al posto nostro.  
    E già dopo i primi due numeri (55) che, in rapida successione riproducevano esattamente lo stesso suono, occupando lo stesso spazio temporale necessario alla rotellina per compiere il tragitto di andata e ritorno, è stato come se vedessi qualcosa muoversi nel salotto della nonna, sul divano “importante” quello dove si ricevevano gli ospiti nei giorni delle feste comandate.
    Poi ho composto l’1. Breve, incolore, quasi senza suono, impaziente di svolgere il proprio dovere e tornare a riposare. Nella stanza della vecchia casa intanto, ho immaginato che da dietro la tenda dell’unica finestra avessero iniziato a filtrare dei raggi di sole, che colpendo l’enorme credenza coi tre cassettoni in noce massiccia (molto più alta di me all’epoca, simile nelle mie fantasie a un enorme grattacielo di legno posto nell’angolo di sinistra subito dietro una poltrona spaiata al divano) sarebbero tornati  indietro disintegrando le ragnatele appese agli angoli delle pareti, illuminando a tratti e con sempre maggior intensità la stanza dove via via la polvere accumulata nel corso degli anni di abbandono si sarebbe sollevata in aria e infine sarebbe scomparsa come per magia, restituendo alla mobilia e alle suppellettili il loro splendore originario. 
    Poi è toccato al numero 9. Per comporlo si doveva far compiere più di mezzo giro alla rotellina, e si poteva quasi vedere, attraverso la crescente resistenza prodotta dalla rotellina stessa, quale sofisticato meccanismo di molle, elastici e chissà quali altre diavolerie d’ingegneria primitiva fossero necessarie a far sì che una volta raggiunta la posizione desiderata il numero fosse effettivamente conteggiato per la composizione.
    Nella stanza ormai inzuppata di luce avrebbe poi preso ad aleggiare il buon profumo di fiori che la nonna curava con maniacale disposizione, e io, seminascosto dietro una cortina fumosa, d’ampiezza siderale, composta da un’infinità di anni da uomo maturo, ho visto chiaramente avvicinarsi il momento in cui, annunciato dal rumore inconfondibile  della sua lambretta (proprio a scoppio era quel motore) avrei sentito tornare a casa il nonno per il pranzo; che avrebbe parcheggiato come sempre sotto la nostra finestra, che poi l’avrebbe spenta girando in senso antiorario la chiave infilata sul manubrio, e, nel silenzio creato dall’improvvisa scomparsa di quel trambusto osceno, avrei sentito tendersi la molla del cavalletto che come sempre avrebbe pigiato in giù col piede destro (dopo aver girato non senza difficoltà intorno alla lambretta, invece che, come più logico, scendere direttamente dalla parte sinistra) per sollevarla.
Il numero 3 è stato un baleno. Non ho esitato, troppo curioso ormai di vedere come andava a finire. Ho infilato il dito e l’ho fatto andare senza indugi. 
    Ed eccomi lì: piccino piccino, proprio io, portatore sano di un allegria spensierata, sul divano con i piedi penzoloni a un buon dieci centimetri dal pavimento e la bocca semiaperta a guardare la televisione. Accanto, silenziosissima nella sua devota operosità, la nonna stava facendo l’uncinetto con quell’espressione sul viso di presunta rilassatezza che sempre si faceva venire per darsi un’aria d’eleganza quando svolgeva quell’attività. Era una scena reale, vissuta tanti anni prima, della quale il mio animo di bambino aveva perso ogni traccia. Ma si sa, l’animo umano ha mille sfaccettature e questa scena di ordinaria serenità infantile dev’essere sfuggita alla ragnatela dei ricordi poco rilevanti, per cadere giù, nel profondo, figlia di quel benessere schietto e genuino che ci colpisce solo quando si è ancora molto piccoli e in balia dell’amore che tutti ci versano addosso senza economie, fino a toccarmi nell’intimo primordiale, dove riposano immutabili le emozioni che ignari conserviamo a uso futuro.
    C’è stato poi un tempo indefinito dopo che ho terminato di comporre il numero, direi circa una ventina di secondi, durante il quale non è successo assolutamente nulla;  suppongo il tempo necessario perché la combinazione di numeri composti percorresse a ritroso e a tutta velocità le quattro decadi che lo separavano dalla stanza nella quale si stava svolgendo l’azione. Poi il telefono ha squillato nel corridoio della vecchia casa, (dove viveva appeso a un muro e a una discreta altezza) un suono acuto, fastidioso, l’unico disponibile, e soltanto in quel momento ho ricordato con dolorosa perfezione quello che sarebbe successo dopo.
    Mi sono visto balzare di corsa giù dal divano schivando per un soffio la presa della nonna, che agitando con furia cieca il braccio sinistro ha cercato di acchiapparmi per la collottola; non voleva infatti che né io né le mie sorelle si rispondesse al telefono di casa sua; doveva essere un adulto a farlo perché il telefono era una cosa seria non un giocattolo. Ma come resistere a sei anni? Come si fa a non provare un brivido sottile  a quell’età nell’infrangere una legge così chiaramente espressione di un eccessivo autoritarismo adulto, la cui infrazione per giunta non portava a nessuna punizione corporale? Al massimo si arrivava a una fiacca reprimenda da parte della mamma alla quale si rispondeva con un sì mogio mogio e poco convinto.
   Le gambine secche ma tenaci, piene di lividi e sbucciature mi hanno portato quasi volando sotto l’apparecchio. La nonna intanto inveiva e prometteva ritorsioni indicibili se mai avessi osato rispondere, la sentivo urlare dall’altra stanza mentre a fatica stava ancora tentando di alzarsi dal divano. Ho acchiappato la seggiola impagliata a mano che tenevamo nel corridoio e dopo averla messa sotto il telefono ci sono salito sopra per arrivare alla cornetta, e portandomela all’orecchio ho detto: «Pronto? Ciao! » Come facevo ogni volta senza chiedere “chi parla”, gettando in pasto a chiunque i mei fantastici sei anni e la mia amicizia incondizionata; e mi sono visto rimanere un po’ così: deluso ma incuriosito, in punta di piedi, ad ascoltare  il nulla.  



venerdì 15 agosto 2014

Un dolore appagante







Nel 1978 avevo una fidanzatina. Una ragazza di La Spezia che avevo conosciuto al mare vicino Viareggio e che fu subito molto chiara con me: il nostro rapporto doveva limitarsi a qualche sporadico bacio a suo esclusivo comodo, ma soprattutto, doveva rimanere segreto. Spesso la domenica mattina partivo da Firenze con la corriera in direzione mare, con l’ingenua e ridicola convinzione che una certa frase pronunciata da lei a un’amica (che poi mi veniva riferita), circa una sua probabile presenza quel determinato giorno in spiaggia, avesse il valore di un appuntamento indirizzato a me, accentuato dal crisma prelibato della segretezza.
Quindi, di solito, mi ritrovavo tutto solo al mare, senza il becco di un quattrino in tasca a deambulare nei pressi dello stabilimento balneare dove l’avevo conosciuta in attesa di vederla comparire. (cosa che non è mai accaduta) E restavo lì tutto il giorno, determinato ad aspettarla fino all’ultimo secondo utile, quello in cui la corriera diretta a Firenze sarebbe sbucata dal fondo del viale, chiudendo in modo definitivo le imposte su quella che, sbagliando in modo clamoroso, avevo predetto sarebbe stata una giornata magnifica.
Quei ripetuti fallimenti non mi hanno certo impedito di ripetere altre cento volte la stessa identica follia e l’andirivieni proseguì per buona parte dell’estate, infruttuoso e ridicolo quanto si vuole ma “benedetto”, perché, come ho compreso solo molti anni più tardi, era proprio da quei fallimenti che tiravo  fuori la nota che mi faceva palpitare il cuore. Infatti, ogni volta che salivo sulla corriera di ritorno, abbacchiato e stanco, percorsi pochi chilometri già montava in me inarrestabile la voglia di ripetere il viaggio la domenica successiva.  Sì, appunto “benedetto”, perché il viaggio di ritorno mi dava il tempo necessario per comporre a mente le poesie che le avrei recitato una volta acciuffata la possibilità di passare qualche ora solo con lei, di trovare interessantissimi spunti di conversazione, e perché no, anche di buttar giù una bozza sommaria di quello che sarebbe diventato il discorso ufficiale quando le avrei chiesto di sposarmi.
E più soffrivo per quell’amore non corrisposto, abbandonato sul marciapiede di un viale a mare, più stavo bene, perché giù, nel profondo, sapevo di essere nel giusto. Sentivo che un giorno sarebbe stata lei quella a cui sarebbero sorti i dubbi, magari anche molto più tardi, tipo dieci o vent’anni dopo diciamo, sarebbe stata lei a domandarsi se per caso non si fosse lasciata sfuggire la grande occasione, di essere stata così vicina al “vero amore” e di esserselo lasciato sfuggire di mano come a un bambino vola via un palloncino, poiché reputavo impossibile che un amore di tale portata (com’era  il mio) potesse rimanere confinato nello spazio di un solo cuore, il mio appunto, ed ero convinto che ovunque si trovasse in quel momento lei lo sentisse proprio come glielo avrei raccontato io, se solo l’avessi avuta vicina.  Amavo l’amore che sentivo, più di quello che mi veniva offerto, e questo bastava e avanzava a quel ragazzetto per sentirsi dentro già a quattordici anni tutti i sogni del mondo.
Quando rientravo a casa la sera trovavo la mamma ad aspettarmi in corridoio. «Com’è andata? » domandava, con la faccia in bilico tra il vero interessamento e la canzonatura per quel figlio il cui cuore era partito al galoppo «Tutto bene» rispondevo come sempre, con voce tetra e priva d’emozioni cercando di sgusciare in camera mia prima possibile. Passandole accanto, spesso vedevo i suoi occhi velarsi di qualcosa mentre mi sorrideva con tenerezza piegando la testa da una parte, io allora le lasciavo giusto il tempo per stropicciarmi un po’ i capelli prima di scomparire.